Acheronta  - Revista de Psicoanálisis y Cultura
Sublimazione e Godimento Altro
Laura Pigozzi

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Sommario

Il Godimento Altro, femminile, non solo ha statuto sessuale ma - si sostiene qui con un meditato rischio - è il cuore pulsionale di ogni movimento inventivo e sublimatorio. Sublimare è godere , potremmo dire con un po’ di provocazione.

Fare arte è un lavoro sul bordo della Cosa, intorno a un buco centrale, annullante, un vuoto che continuamente chiama verso di sé. Il fare artistico è intrinsecamente rischio: per questo motivo in ogni arte c ’è in gioco l’intreccio tra sublimazione e pulsione di morte.

Importante sarà anche distinguere sublime e sublimazione, figure differenti ma contigue, che entrano nello stesso processo ma con funzioni distinte anche se confinanti. Il sublime è il sentimento di fronte alla Cosa: esso rappresenta la tentazione e il fallimento di ogni sublimazione, ma senza sublime nessuna sublimazione è possibile.

 

Sublimazione e godimento Altro

Si fa arte sul bordo dell’abisso: ogni artista lavora intorno ad un punto d’incandescenza e di reale che può sopravanzarlo oppure diventare l’occasione per creare qualcosa. Ogni opera, che non sia dilettantismo o ornamentalismo, si trova a fare i conti con la Cosa, la quale è sia un reale primordiale e brutale, sia Es, la parte più intrattabile dell’inconscio, il trauma fondamentale. La Cosa ha, dunque, due lati che l’arte intreccia: il trauma come reale e il reale come trauma. In questo punto si situa la tensione dell’artista e la possibilità che la sua ricerca possa farne qualcosa di questo inferno, oppure che da questo venga assorbito, producendo uno scacco sempre possibile. La Cosa sta al centro di ogni fare arte.

Per alcuni il fare artistico è caduta nel caos infinito; è il caso di Van Gogh artista che pagò con la vita il suo bisogno psichico di fusione con la natura, con la Cosa che diventa metafora della madre da cui venne accettato solo come sostituto di un primo figlio morto e idealizzato, da cui il pittore eredita, per supplementare sciagura, anche il nome, Vincent [1] Van Gogh, aderendo al desiderio materno, aveva occupato il posto cui la madre lo aveva destinato: quello di un morto.

Non è affatto detto, però, che l’artista debba stare nel solco di una maledizione; tra gli artisti c’è la stessa varietà psichica presente nella popolazione generale. Nel caso di tratti psicotici, per l’artista si tratta, più facilmente, di una psicosi rovente, distinta e lontanissima dalla psicosi normotica di cui parla Bollas, che anestetizza il mondo interno, inferno senza calore e vera piaga della contemporaneità.

Il trauma è un punto di attraversamento, in solitaria, che l’artista si trova a compiere ad ogni opera. Lavorare con la materia scatena fantasmi, probabilmente ancor di più quando si lavora con la voce, anello tra corpo e psiche, materia inerente al soggetto, che lo rivela come unico. Praticare la voce tocca corde intime, le più intrattabili che si possano immaginare. Chi insegna un’arte deve tenerne conto: gli arteterapeuti non possono essere solo artisti, ma è necessario che abbiano un’intensa formazione dell’inconscio, delle sue strutture e del suo linguaggio. Chi conduce singoli o gruppi in questa ricerca deve avere coscienza di ciò che significa, a livello inconscio, produrre suono o un colore dal proprio corpo, perché l’arte accende un fuoco che, per ognuno, disegna ombre diverse.

Nei momenti in cui la Cosa spadroneggia si realizza, nella psiche femminile, una situazione equivalente a quella dello sprofondamento nella natura teorizzato da Van Gogh.

Quando ciò accade? Quando una donna è investita da tale potenza? Ci sono vari momenti della vita in cui alcune donne si lasciano abitare dal caos, in luogo di cercare d’includere quella potenza, sublime e terribile, in un progetto.

La Cosa senza freni è la madre con cui ci si fonde, quella che non permette la separazione. E’ la follia della passione amorosa che in una donna si annoda non raramente alla rovina: "Sarìa per me sventura un serio amore?" si chiede, preveggente, Violetta Valery ne La Traviata. La Cosa è travolgente nel ravage - ammaliamento e devastazione - che lega una figlia alla madre: una situazione descritta impeccabilmente dal genio di Ingmar Bergman nella scena di Sonata d’Autunno in cui madre e figlia suonano, a turno, Chopin; la danza dei loro sguardi la racconta, più precisa di una teoria. Dapprima si vede la pena, congiunta all’orrore, negli occhi della madre mentre ascolta suonare la figlia senza talento e, successivamente, quando a suonare tocca alla madre, si vede il rapimento che la madre, eccelsa interprete, esercita su una figlia annientata dalla sua potenza [2]. Ma anche un figlio può subire un ravage materno, quando la Madre diventa una Cosa inglobante:

"La madre distante vuole il bambino tutto per sé; è la madre rifiutante che lo vuole prigioniero. Naturalmente non è rifiutante in modo evidente, bensì in modo subdolo, e nega decisamente di esserlo. Prenderà nel suo letto colui o colei che non ha saputo prendere in braccio. La madre calorosa e vicina non prova l’insaziabile bisogno di stringere a sé in suo bambino come in una tasca marsupiale. Del resto, lei conosce altri desideri." [3]

Nelle separazioni difficili, la Cosa è l’odio, ben conosciuto nei tribunali, che fa’ si che una madre possa - di fatto, se non per legge - sottrarre i bambini al padre, sequestrandoli psichicamente, con una sistematica erosione della loro presenza presso di lui, esautorandone anche psichicamente la figura. La situazione è delicata perché un bambino, almeno finché è piccolo, pensa del padre ciò che ne pensa la madre e con lui si comporta secondo il desiderio materno: il valore del padre è trasmesso dalla voce della madre e dal fantasma di lei che in quella voce trova corpo.

Con la potenza della Cosa una donna ha consuetudine, nel male e nel bene, cosicché riesce ad averci a che fare anche in altre occasioni, meno devastatrici. Ad esempio, quando la Cosa si fa sentire corpo del malato o del moribondo al cui capezzale è più facile trovare volti e mani di donna, non perché siano migliori, ma perché l’abisso dimora in esse: dal mistero infinito di una nascita, al godimento Altro, in una donna si mette in scena qualcosa che la sopravanza, che lei stessa non controlla, che spesso neppure comprende e di cui non può dire tutto. La Cosa è - in accordo con l’etimologia - la causa delle manifestazioni più oscure e magmatiche del femminile, ma anche delle più interessanti. Insomma, la Cosa è il centro di tutti gli snodi psichici del femminile e, anche, del fare arte.

Se è vero, come sostiene Lacan, che di donna non ce n’è una uguale all’altra, che non si può dire La donna, ma solo una donna, che, insomma, per esse l’universale non vale, è però vero che in ogni donna alberga la Cosa: se non sono, dunque, universalizzate dal linguaggio, lo sono dalla sua tacitazione, dal silenzio abissale del godimento femminile, declinato in ogni punto significativo della nostra vita. Per precisione, va anche aggiunto che tale godimento, ancora una volta, si manifesta in maniera diversa per ogni donna.

Il godimento femminile è stato definito, da Lacan, godimento Altro, supplementare a quello maschile, provato anche dall’uomo nella posizione del mistico, oppure - secondo la mia lettura - del cantore [4]. Un godimento non localizzato, che non funziona nel regime di acme e scarica, come quello fallico maschile, ma che investe il corpo e la psiche di una donna tutta intera, diffusivamente, a onde concentriche. " Il canto è disturbato dal maschile", dice una analizzante che canta e recita. Quando la voce tocca il punto di indicibilità, il "maschile" fa ostacolo.

Il godimento Altro, femminile, è pure rintracciabile nell’erotizzazione che la mistica intrattiene fantasmaticamente con Dio e che una donna eroticamente esperisce sul piano di un reale ingovernabile, senza che per questo declini verso la follia: si tratta di ciò che possiamo chiamare un laico godimento mistico. Tale godimento ha un andamento simile alla pervasività concentrica del suono nel corpo, quando la voce sia usata in modo non ingenuo ma tecnicamente appropriato.

Ciò che, in tale godimento, una donna prova sul piano del reale erotico, può avere ricadute sul piano immaginario nell’esaltazione del partner a cui viene attribuito il potere di donare tale godimento. Così come, specularmente, il godimento della mistica, dal piano immaginario, ha effetti sul reale del corpo quando, nel furore estatico, si ferisce o si insudicia. Il passaggio dal reale al piano simbolico è possibile con la velatura che consente la trasmissione, anche parziale, di una tale esperienza, la sua scrittura. Con ciò si ha la possibilità di condividere un tale godimento, singolarmente insopportabile, attraverso un’opera d’ arte, un canto, una poesia o una autobiografia come quella di Teresa D’Avila [5]

Posizione femminile, sublimazione e godimento Altro hanno, dunque, una intersezione forte, un nucleo ardente che le governa: la Cosa, l’abisso, la natura, il reale. Dunque, esplicitando l’implicazione, il tipo di godimento cui la sublimazione dà accesso è niente meno che il godimento Altro.

Sublimare è godere, come una donna.

Dal momento che la creazione non prevede discriminazioni sessuali, è del tutto evidente che ogni essere umano, uomo o donna che sia, ha accesso a tale godimento nell’atto creativo. Lacan sostiene che gli uomini rientrano nell’universale ma è pur vero che esistono le eccezioni. Seguendo la nostra ipotesi, possiamo dire che questi ultimi, fuori dalla serie, lo sono perché hanno accesso ad un godimento creativo, attimo magico in cui il godimento Altro diventa accessibile anche ad un uomo, sotto la forma, non sessuale, dell’invenzione.

E’ dal lato femminile dell’essere che l’eccezione creativa prende vita perché, se ogni donna è diversa da un’altra, per esse l’eccezione è la regola.

L’impossibilità del rapporto sessuale tra uomo e donna - dato dal fatto che l’uno gode fallicamente e l’altra di un godimento diverso e supplementare a quello - si stempera nell’incontro che, tra esseri differentemente sessuati, avviene nell’arte, nell’invenzione, nel pensiero, nella scrittura. E’ nella sublimazione, sotto l’egida del godimento femminile, che uomini e donne possono trovarsi. E non è poca cosa.

Il godimento Altro è un fenomeno intensissimo, ma senza acme. La stessa definizione d’assenza di culmine-scarica è utilizzata da Winnicott per il gioco del bambino, anch’esso godimento diffuso e senza picchi [6] Ciò, evidentemente, non può significare che nel gioco infantile agisca una forza potente come il godimento Altro, per quanto possano essere profonde le angosce di un bambino che sublima giocando e che dal gioco viene rapito. Il lutto è il motore del gioco, in esso si tollera la mancanza della madre, simbolizzandola in un gioco che la rappresenta.

Nell’arte accade diversamente: si lotta per estrarre un oggetto originale dalla madre-Cosa, da un reale che chiama come un gorgo, in una sorta di parto che possa "elevare l’oggetto alla dignità della Cosa", mettendo, cioè, al mondo non un oggetto d’uso ma qualcosa che includa le tracce dello sforzo mortale di quella lotta e che al letale della Cosa faccia velo.

La voce del canto, ad esempio, nasce a causa e nonostante il reale, sia quello del trauma originario, custodito nell’Es, che quello del corpo, dello sfarfallìo dei bordi cordali nella gola: l’oggetto canto è degno quando nasce dalla lotta con tale reale, trattenendone traccia nel timbro e nel rumore incluso in esso. Un canto è godimento reale nell’onda estatica che invade il corpo; immaginario nel rapimento che induce e simbolico per il legame che crea con chi è in ascolto.

In tutt’altra prospettiva si pone invece l’oggetto che non è frutto di lotta con la Cosa: esso è l’oggetto-gadget, quello di consumo, prefabbricato, anestetizzante che viene animato da una fittizia storytelling, una pseudo-filosofia che gli permette l’esistenza minima di mercato, quella breve vita che va dall’acquisto al consumo. Esso resta, perciò, un oggetto non elevabile alla dignità della Cosa, salvo farlo prima ritornare Cosa come accade nelle opere fatte con oggetti di scarto.

Anche il bambino che gioca con il rocchetto usa un oggetto industriale, morto, che, simboleggiando la madre, si risveglia a nuova vita, seppure il processo sia una trasformazione privata, non inserita nel circuito di un linguaggio condivisibile (almeno fino a quando Freud, scrivendone, non ne ha fatto un paradigma). Nell’arte l’uomo raggiunge la condivisione estraendo dalla madre-Cosa un oggetto dignitoso: una melodia dal magma dei suoni che il corpo produce, una poesia dalla babele delle voci, una scultura dalla spazzatura in una sublimazione dell’abiezione. Si celebra così, sulla scia del bambino, lo scampato pericolo da un tutto inglobante. L’artista estrae una forma da un’informe materia, che vi resta, però, inclusa come segno enigmatico.

Nel gioco la madre non c’è in presenza reale e la sua assenza lascia libero il bambino di creare, mentre nell’arte, per creare occorre lavorare e lottare con la madre-Cosa. Un’altra differenza: la rassicurante ripetizione del gioco, quando diventa arte, è spaesante, come, ad esempio, nei canoni musicali perpetui in cui una stessa melodia che si ripete e si sovrappone ad un’altra identica ma sfasata nel tempo producendo inaspettate armonie.

Winnicott definisce la sublimazione come godimento che prevede una variabilità infinita, in contrasto con la stereotipia ripetitiva dei fenomeni legati al mero soddisfacimento dell’organo [7]. Questa è propriamente anche la caratteristica del godimento Altro che non è mai replica e che è infinitamente variabile per ogni donna, una per una.

Legare la sublimazione al godimento Altro, femminile, non è privo di conseguenze teoriche. Innanzitutto sorge spontaneo chiedersi se dietro le difficoltà che Freud denunciò continuamente intorno all’elaborazione teorica del concetto di sublimazione, non avesse, per caso, intravisto proprio il nesso tra la sublimazione e l’enigma del femminile. Non a caso, furono proprio questi i due problemi - femminilità e sublimazione - ad angustiarlo fino alla fine. In effetti psicanalisi, donna e sublimazione nascono quasi contemporaneamente nella teoria freudiana: già dal 1897 Freud parla di sublimazione, tornandoci poi per tutta la vita. La sua difficoltà è testimoniata anche dal fatto che distrusse il testo dedicato alla sublimazione: perché lo fece? Perché, come si è sempre pensato, insoddisfatto della formulazione teorica in sé, o forse anche perché timoroso della piega (piaga) teorica che la faccenda poteva prendere?

Parallelamente, potrebbe non essere casuale che anche la teorizzazione della Cosa, concetto così intenso e fecondo, ad un certo punto sia stato accantonato da Lacan. Misteri della storia della psicanalisi che forse hanno a che fare con la crucialità che il loro approfondimento avrebbe dato al femminile. E’ del tutto comune, infatti, trovare accreditate definizioni che sovrappongono - tout court e un po’ assiomaticamente - la sublimazione con il padre simbolico, il quale c’entra eccome, ma non nella strutturazione del tipo di godimento cui la sublimazione dà accesso. La funzione del padre simbolico interviene in un momento successivo, quello della circolazione dell’opera che crea - o non crea - legame.

Tra estasi e creazione

Il godimento Altro non è la Cosa - altro luogo comune psicoanalitico - ma il poterla bordare, il toccarla senza morirne: partecipa della (partitivo) Cosa ma non sprofonda nel suo infinito abisso di cui però risente ed è toccato e fecondamente "guastato ".

Il godimento Altro è paradossale, sta tra l’infinito e la parzialità e prevede l’accettazione di una quota di passività. Il punto enigmatico e cruciale è, infatti, che nella "lotta" con questa grande epifania della morte che è la Cosa ogni artista non solo fa arte, ma si lascia anche fare dall’opera. Cantare è anche lasciarsi cantare, così come il colore, la sua consistenza, guida la mano del pittore. Il godimento femminile sta alla frontiera tra estasi e creazione.

L’opera metaforizza la tenebra della Cosa, la rende parzialmente dicibile anche se non la spiega né la rende accessibile; ne estrae un oggetto non d’uso, bensì abitato dal mistero e dal tragico. La Cosa è l’interdetto, è il corpo della Madre, è l’acqua nera dell’incubo, l’afanisi a guardia della quale sta il principio di piacere. Ma il godimento Altro comprende anche la pulsione di morte, più antica del piacere.

Lacan tratta la sublimazione a partire dall’amore cortese in cui la Dama è esattamente ciò di cui non è possibile godere: essa è l’interdetto, la Cosa. Questo approccio di Lacan è stato a volte tradotto con: si scrive al posto di godere. Ma il godimento Altro pertiene alla sublimazione, per cui scrivere è godere, sebbene di un godimento femminile, Altro.

Sul piano della clinica maschile, c’è una difficoltà a relazionarsi con una donna che non sia totalmente nella posizione della Cosa (madre), né completamente in una posizione fallica, maschile. Eppure una donna è esattamente lì, alla frontiera. Essa si trova - più nolente che volente - a fare i conti con la problematica e complessa partecipazione ad entrambi i poli, e ciò in analogia al suo doppio godimento, fallico-clitorideo e Altro, insieme movimento di verticalità e di concentricità mai veramente armonizzabili.

Questa difficoltà femminile non può che riverberare sull’uomo il quale, ad esempio, può mettere - per restare in tema di amore cortese - la propria donna in posizione impossibile di Dama, lamentandosi poi che essa li domina (Dama-Domina). In questo modo implicitamente chiedono alla donna di essere veramente Cosa perché non tollerano la sua partecipazione alla Cosa, e, nel contempo, veramente fallo, totem, facendo della Cosa un fallo da venerare. Senza troppo temere la cacofonia diremmo che la mettono nel posto di una totale totalità: ma gli idealizzatori, si sa, non amano il parziale. Così quella donna finisce per rappresentare il fantasma, spesso anaffettivo e crudele, della Madre: Cosa e fallo insieme. Tale posizione in cui l’uomo mette la donna si declina, prima o poi, nell’inviolabilità sessuale dell’incesto simbolico e quindi nell’astinenza della coppia.

Sublimare è un’operazione femminilizzante, non tanto nel senso che il trovatore si mette in posizione femminile, di cavalier servente, rispetto alla Dama [8], quanto piuttosto perché, come capita ad una donna, si può anche sopravvivere al panico suscitato da un godimento Altro che in sé ha qualcosa dell’eccesso.

La Cosa è panica - per il lato maschile dell’essere - quando è vissuta come vuoto che risucchia, in analogia con l’angoscia di penetrazione provata da alcuni uomini che in quel momento si sentono, come ebbe a dire un analizzante, "cadere nel vuoto". Opposta, ma speculare, è la posizione - pensata come norma della sessualità maschile - in cui si manifesta la propensione a fecondare più femmine della specie: se ciò aderirebbe alla necessità biologica di "spargere il seme" a favore della continuità biologica, da un punto di vista più sottile si potrebbe trattare, a livello inconscio, di riempire ogni buco del reale, temuto e vissuto come vuoto da dover colmare. Il buco, il vuoto evocano fantasmi. Lacan, nel momento in cui dice a chiare lettere che il godimento della sublimazione è godimento sessuale, sostiene che la sublimazione opera intorno al vacuolo [9], traccia inaccessibile lasciata dall’oggetto a, da sempre perduto, che rende l’opera d’arte una epifania del vuoto. Un vuoto che agisce proprio perché non è ottusamente riempito. Il vacuolo è luogo dell’arte e della mistica [10], presenza dell’irrappresentabile. "L(a) cosa è assente laddove essa occupa il proprio posto" [11]

Il godimento sessuale, di cui crediamo si tratti, è quello femminile, che può toccare l’indicibile, il vuoto, senza provarne orrore: l’esperienza dell’orgasmo femminile, del parto e di una certa pratica con la malattia e la morte, sono esperienze che una donna, pur non dominandole, prova frequentemente nel corso della sua vita. Esperienze non comunicabili, non comprensibili fino in fondo che gettano una donna nello stato d’animo paradossale che ogni artista conosce: impotenza e potenza esperite contemporaneamente, unite in un ossimoro creativo; prove sconvolgenti che stanno nel nucleo ardente della vita. E’ per questo motivo che ogni artista, nel momento in cui crea, è donna: non tanto perché crea un’opera che è un po’ come un figlio, ma perché nel farlo, tocca quel punto incandescente ed inesprimibile che il godimento femminile fa provare, che si può solo provare e non raccontare fino in fondo, che è fuori linguaggio, ma crea un linguaggio incendiato.

Il disagio attuale della civiltà, che si manifesta nella indebolita capacità umana di sublimare, potrebbe avere a che fare con il disconoscimento del ruolo del godimento Altro nella creazione. Il godimento Altro, femminile, si configura sempre più precisamente come l’architrave del meccanismo psichico della sublimazione. Dal punto di vista del canto e della voce, ho altrove ampiamente argomentato che il godimento del canto è analogo al godimento Altro [12]. E’ stata proprio l’indagine sul godimento della voce a mettermi sulle tracce di questa congettura che appare, finora, piuttosto feconda.

A questa tesi si potrebbe obiettare che se il godimento Altro è relativo alla posizione mistica e al canto, allora esso ha a che fare più con il sublime che con la sublimazione.

Se si considera Dio come l’oggetto della mistica, esso è indubbiamente qualcosa di posto molto in alto, sublimen, attaccato in alto, letteralmente sotto l’architrave della porta, venuto a prendere il significato di "elevatissimo spiritualmente". Si usa questo termine anche per indicare una sorta di nobile "esaltazione" di fronte alla bellezza: quante volte si sente dire "che voce sublime!". L’obiezione, dunque, va presa in considerazione e discussa. Però, prima di addentrarci nella disamina del sublime e della sua differenza con la sublimazione, diciamo subito che il godimento femminile non è da confondere con il "sentimento oceanico" descritto da Freud, parente del sublime, che corrisponderebbe al "ristabilimento di un narcisismo illimitato". Qui il soggetto è in cerca di "protezione da parte del padre", dice sempre Freud, mentre una donna sa che nel tempo di quel godimento nessun padre verrà a salvarla; ed è proprio quello che alcune donne affette da anorgasmia temono: un perdersi senza preventiva garanzia di salvezza.

L’oggetto artistico si può dire tale se "solletica Das Ding dal di dentro" [13], cioè, la sua qualità è artistica se tocca intimamente la Cosa. Il godimento femminile è saperci fare con una quota di reale e di morte, pur essendone sopravanzati, è potersi avvicinare a qualcosa che non è circoscrivibile.

Un oggetto d’arte è sempre in bilico tra bellezza e perdita; non appaga mai, tiene in equilibrio precario su un precipizio che chiama. E’ un bello che perturba (non è il Bello) [14], che non sopprime l’orrore della Cosa ma la evoca, le si avvicina con una sua lievità, la chiama, non ne è divorato ma, di essa, ne include qualcosa. L’artista sta in un luogo impossibile, sul bordo dell’abisso, senza garanzie.

Il sublime e l’anamorfosi

Che cosa è il sublime? Diciamo subito che è un doppio. Deriva dalla parola latina sublimis, con la variante sublimus: proviene da sub limes, e indica ciò che sale obliquamente, e anche ciò che sta sotto la soglia, che giunge fin sotto la soglia più alta e viene usata nel senso di "altissimo" (sub-limen). Esiste anche la locuzione sub-limo, che significa "sotto il fango" [15]. Non a caso nel primo trattato sul sublime che si conosca, l’autore associa il sublime all’abisso [16], ambivalenza ripresa dalla Kristeva quando dice che l’abietto è bordato di sublime [17]

Alto o basso, il sublime chiama in causa ciò che è fuori misura, incommensurabile; ha a che fare con qualcosa che ci afferra ma che non comprendiamo. Freud ammette che, di fronte ad un’opera d’arte, il suo intento è quello di capirla e di cercare per quale via essa produca i suoi effetti di attrazione: ma c’è un caso in cui ciò non gli riesce, e, precisamente, quando in gioco c’è la musica.

"Sono stato indotto ad indugiare a lungo di fronte alle opere d’arte con l’intento di capirle a modo mio, cioè di rendermi conto per qual via producano i loro effetti. Nel caso in cui non mi riesce, come per esempio per la musica, sono quasi incapace di godimento. Una disposizione razionalistica o forse analitica si oppone in me a ch’ io mi lasci commuovere senza sapere perché e da che cosa" [18]

Ciò a cui Freud, in questo passo, si oppone è proprio la disposizione femminile, la quota di passività propria del godimento Altro. Il paradosso del suono sta nel fatto che l’incommensurabilità della musica si offre attraverso battute, tempo e durata delle note, cioè una misura precisa: come nel sublime, anche nel suono c’è del doppio, presenza contemporanea di misura e dismisura, materia di ogni operazione sublimatoria. La musica eccede la misura di cui è essenzialmente fatta: ecco come la banalità dell’oggetto numerabile (battuta, durata) si "elevi alla dignità della Cosa" [19], potendo attingere qualcosa del sublime e costruendo, nello stesso tempo, un oggetto sonoro che fa da filtro all’abisso.

Il sublime fa sentire catturati e smarriti: in ciò è analogo al perturbante freudiano, familiare ed estraneo insieme. Il sublime è un altro nome del perturbante. Il trattato di Longino [20], datato presumibilmente nel primo secolo dopo Cristo e ignorato per secoli, torna in auge con le traduzioni di John Hall del 1652 e di Nicolas Boileau del 1674 che inaugurano la fortuna del testo. Boileau marca il lato del rapimento, dell’irrazionale e del disordine implicito nel Sublime. Nel Settecento questo concetto si articolerà intorno alla coesistenza di orrore e delizia o di terrore e inusuale felicità.

Qui troviamo le radici delle riflessioni filosofiche di Burke e Kant. Per Burke il sublime è una forza su cui non si ha padronanza, è un "orrore dilettevole" che sovrasta la ragione. Per Kant tale ossimoro costituirà un’occasione per ribadire la superiorità dell’intelletto: la dissonanza tra immaginazione e intelletto si mostra nell’impossibilità dell’immaginazione di presentare l’oggetto irrappresentabile che è il sublime. Sublime è presentare ciò che non può essere presentato, cioè, la Cosa. Che è un altro modo per enunciare la formula hegeliana: il sublime è un dar forma, a sua volta è annullato da ciò che mostra [21]. Dicendolo in un altro modo: nella lotta tra forma e caos, il caos, nel sublime, ha la meglio. Nella sublimazione, invece, ha il sopravvento la forma che include l’informe. La questione non è, comunque, semplice perché è chiaro che l’omonimia non è senza significato:

"La congiunzione del termine sublime con quello di sublimazio ne probabilmente non è solo fortuita, né semplicemente omonimica" [22]

Sublime e sublimazione sono concetti differenti ma contigui, entrano nello stesso processo ma con figure e funzioni distinte anche se confinanti.

Proviamo a dire così la relazione tra i due termini: il sublime è quando la non garanzia del godimento Altro ha l’esito peggiore, quando la Cosa si fa inferno puro: per fare un esempio pensiamo alla clinica della dipendenza, da droga, da cibo, da sesso, da computer, da partner, da un altro immaginario; il meccanismo è quello di entrare in un godimento esaltante ed ottundente insieme. Ciò accade quando non ci si sa fare con il godimento Altro: l’erotomania maschile che si fissa ripetitivamente sul pezzo di carne (generalmente sempre una stessa parte anatomica) o l’anoressia che gode del niente e chiede sempre più niente, sono esempi di una sostanziale estraneità al godimento Altro. Ciò accade quando non si può tollerare l’ambivalenza, la coesistenza di altezza e bassezza, di orrore e gioia, di "croce e delizia".

C’è accesso alla sublimazione solo se si tollera il doppio, la parzialità dell’esistenza, perché la pulsione di morte è implicata nella sublimazione. Il sublime, cuore della sublimazione, è, infatti, l’evidenza che il soggetto è spaesato, abitato dal perturbante e dall’altalena che gli procura la pulsione di morte che s’intreccia alla vita. Il sublime, cioè, diventa materia della sublimazione quando il soggetto può sostenere la coesistenza di attrazione e repulsione, epifania e inferno, ovvio e enigmatico, familiare e straniero. "L’inferno è l’unico calore possibile nella mente di ogni poeta", come scrive la Merini [23]

Il sublime è il sentimento di fronte alla Cosa; rappresenta la tentazione e il fallimento di ogni sublimazione: è restarci impigliati senza poter estrarre l’opera dal magma, è come sbagliare l’istante in cui la pasta di vetro va sottratta al fuoco. "Poter trattenere il sublime!", dice Nietzsche. Ma esso funziona nella "toccata e fuga", nello scendere all’inferno e tornare, nel saperlo parzializzare. Ma come si può parzializzare il sublime che è un tutto?

Senza sublime, nessuna sublimazione è possibile, ma un troppo di sublime distrugge. C’è arte quando un brandello di sublime è trattenuto; quando l’opera contiene un po’ di morte, un po’ di merda, un po’ di cielo. Allora essa diventa anamorfica.

L’anamorfosi è la figura in cui sublime entra nella sublimazione e i due significanti rendono conto della loro omonimia; si tratta di una figura apparentemente ordinata che cela il disordine. E’ un’aberrazione prospettica, una distorsione di forme che possono essere riconosciute solo da un punto di vista obliquo [24]. Tra le opere più famose c’è quella discussa da Lacan, di Hans Holbein, Gli Ambasciatori, in cui nella figura ai loro piedi è visibile, inaspettatamente e solo ponendosi in un certo angolo visuale, un teschio. Tale forma inquietante si vede, per esempio, uscendo dalla sala e voltando la testa un’ ultima volta, cambiando cioè completamente prospettiva: allora da quella forma enigmatica emerge, inaspettatamente, la testa di morto, insegna classica del tema delle vanitas, piazzata proprio al centro e contemporaneamente occultata. Questo centro velato è esattamente il posto della Cosa in ogni opera.

Ovviamente, ciò non significa che l’opera debba imitare lo stile esteriore della anamorfosi, che oltre tutto spesso viene confuso con la tecnica del trompe l’ oeil. L’anamorfosi è una metafora che ci offre l’idea di cosa può significare, strutturalmente, parzializzare il sublime. La Cosa celata nella forma è visibile solo da un certo punto di vista che non è l’usuale. Ciò rende l’opera ambigua, poliversa, spaesante: non la Cosa spiattellata lì - come la cosiddetta "merda d’artista" - ma la Cosa nascosta e visibile insieme, che è lì a fare enigma dell’opera.

Enigma, invece, assente nell’esibizione delle feci, così come nell’opera Cloaca di Wim Delvoye, esposta al Casinò di Lussemburgo, macchina trasparente che assume cibo e dopo una serie di trasformazioni produce escrementi. Pensare di esporre la merda e, così, svelare la Cosa è solo una provocazione [25]. Lo statuto della Cosa che ha a che fare con l’arte, è l’anamorfosi, non l’informe.

La vera contestazione all’idealizzazione non è la "merda" (casomai suo fedele e occulto alleato) ma è la sublimazione. L’anamorfosi è il modo dell’opera per ricomprendere l’oggetto di scarto, senza farsene dominare. L’arte non è nel bello, ma nella sublimazione che tocca il sublime e il fango, senza cadere nel caos, senza rovesciarsi nell’abisso. La sublimazione resta agganciata al desiderio e al progetto. E’ uno "sporcarsi le mani" [26] nella "merda" o nel cielo del sublime, per poter costruire - anamorfizzando il limo - un oggetto inedito e condivisibile che possa far legame sociale.

Il soggetto precipita nel sublime quando l’abisso non è anamorfizzato. Ecco perché il godimento Altro non è nel puro sublime, ma è l’unico che possa dar accesso al sublime, senza precipitare nella follia o nella dipendenza. La sublimazione è un processo di bordo.

La sublimazione è il limite del sublime, essa mette al centro della questione il rapporto del soggetto con qualcosa di primordiale, il suo attaccamento all’arcaico, alla Cosa. La sublimazione è l’unico modo, per l’uomo, di trattare con la Cosa.

Nella sublimazione c’è del corpo; c’è del godimento, mentre nel sublime la Cosa, la Madre, la natura non sono parzializzate, velate, ma si presentano come un tutto che genera sgomento o siderazione; il godimento qui non è Altro ma è pura pulsione di morte. Il sublime è quando non c’è bordo al godimento mortifero: la modernità è, per un certo verso, un’esperienza di sublime senza sublimazione. Per creare occorre invece un’esperienza di bordo, di confine.

La sublimazione è un "ambito di distensione attraverso cui la collettività può illudersi su Das Ding [la Cosa], può colonizzare con le sue formazioni immaginarie l’ambito di Das Ding" [27]. Sublimare allora significa trovare uno spazio bordato per poter immaginare ciò che per sua natura non è immaginabile. La Cosa - che è un altro nome del Tutto, della Pienezza, del ciò a cui nulla manca - attraverso le formazioni della sublimazione si trova ad essere "colonizzata", cioè in parte simbolizzata e immaginata e, contemporaneamente, svuotata del suo troppo, terrificante pieno. L’assenza è l’opera d’arte, dice Fédida [28]

Sublimare indica lo statuto di soggetto al limite: in questo senso la sublimazione ha a che fare con l’etica, che, a differenza della morale, non disdegna il pericolo dell’abisso. "La sublimazione è l’altra faccia della esplorazione pioneristica di Freud alle radici del senso etico" [29]

L’uomo che è impegnato in una trasformazione soggettiva fa un’opera d’ arte, lavora sul bordo dell’inferno. Sublima il sublime.

Notas

[1] L.Laufer, L’offande de Vincent Van Gogh ou le paradigme du frère mort, Revue L’Esprit du temps.Champs psychosomatique, 2004, n.4, pp.87-88

[2] Scena magistrale che si può rivedere al link http://www.youtube.com/watch?v=ntfRdCPMbQY

[3] P.C. Racamier, Incesto e incestuale, Franco Angeli, Milano, 2003, p.91

[4] L. Pigozzi, A Nuda Voce. Vocalità, inconscio, sessualità, Antigone Edizoni, 2008 (rist 2009, 2010)

[5] "Gli vedevo nelle mani un lungo dardo d'oro, che sulla punta di ferro mi sembrava avere un po' di fuoco. Pareva che me lo configgesse a più riprese nel cuore, così profondamente che mi giungeva fino alle viscere, e quando lo estraeva sembrava portarselo via lasciandomi tutta infiammata di grande amore di Dio. Il dolore della ferita era così vivo che mi faceva emettere dei gemiti, ma era così grande la dolcezza che mi infondeva questo enorme dolore, che non c'era da desiderarne la fine. Non è un dolore fisico, ma spirituale, anche se il corpo non tralascia di parteciparvi un po', anzi molto",  da Santa Teresa d'Avila, Autobiografia, XXIX, 13

[6] D.W. Winnicott, Gioco e realtà, Armando, Roma, 1994, p.169

[7] D.W. Winnicott, Gioco e realtà, op.cit., p.169-170

[8] E.Tellermann, Sur la sublimation, Séminaire d'été 2006 del 27/09/2006 Paris, ALI (Association Lacanienne Internationale): "le troubadour se met en position féminine du côté de cette Dame qu'il invente" ("il trovatore si mette, nei confronti della Dama che lui stesso inventa, in posizione femminile").

[9] J. Lacan, Le Seminare, Livre XVI, D’un Autre à l’autre, Seuil, 2006, p. 232. "Je vous dirai seulement que le rapport de la sublimation avec la jouissance en tant qu’elle est jouissance sexuelle, puisque c’est de cela qu’il s’agit, ne peut s’expliquer que parce que j’appellerai littéralement l’anatomie de la vacuole"

[10] C.Lethier, Les champs lumineux de Mark Rothko, http://www.champlacanienfrance.net/IMG/pdf/lethier_M41.pdf

[11] J. Lacan, Le Séminaire, Livre XVIII, D’un discours qui ne serait pas du semblant, Paris, Seuil, 2006, p. 77

[12] L.Pigozzi, op.cit., cap.3. Aggiungiamo che non siamo d’accordo con Marie-France Castarède che vorrebbe la voce come il regno regressivo della madre (M.F.Castarède, La voix et ses sortilège, Belles Lettres, Paris, 1987, p.126 e segg). Piuttosto consideriamo la voce come regno del femminile, cosa assai diversa.

[13] L’oggetto a "est ce qui chatouille das Ding par l’interior". J. Lacan, Le Seminare, Livre XVI, D’un Autre à l’autre, Seuil, 2006, p.233

[14] Già Platone differenziava il Bello dal Sublime quando faceva dire a Socrate: "chi giunga alle soglie della poesia senza il delirio delle Muse, convinto che la sola abilità lo renda poeta, sarà un poeta incompiuto e la poesia del savio sarà offuscata da quella dei poeti in delirio" (Fedro 245 a)

[15] limo dal greco leìmon, "luogo umido, ricco d’acqua, argilla, muco"

[16] Dionigi Longino, Del Sublime, Rizzoli, Milano, 1991: "Questo dobbiamo chiederci all’inizio, se esista un’arte del sublime o dell’abisso."

[17] J.Kristeva, I poteri dell’orrore. Saggio sull’abiezione, Spirali Edizioni, Milano, 1981, p. 14

[18] S.Freud, Il Mosé di Michelangelo, 1914, in Opere, vol.7 p.299, Bollati Boringhieri, Torino, 1998 corsivo mio

[19] Non si può non notare una funzione di calembour – modalità molto amata da Lacan – che, nella lingua francese, gioca tra dignità (dignità) e dingité che è una francesizzazione inventiva del termine tedesco Dingheit (cosalità)

[20] O dello Pseudo Longino, l’attribuzione è ancora incerta, dal titolo Peri Hypsous, Sul Sublime.

[21] F.Hegel, Estetica, Einaudi, Torino, 1976, p.410

[22] J.Lacan, Seminario VII, L’étique de la psychanalyse, Seuil, Paris, 1986, p. 378

[23] A.Merini, Superba è la notte, Einaudi, Torino, 2000

[24] A partire dal Rinascimento alcuni pittori hanno fatto uso dell'anamorfismo per nascondere significati alternativi in un'opera. Il termine compare per la prima volta nel trattato "Magia Universalis naturae et artis ", pubblicato da Gaspard Schott tra il 1657 e il 1659 a Wurtzburg. In questo trattato vi è un capitolo intitolato: "De Magia Anamorphotica, sive de arcana imaginum deformatione ac reformatione ex optices atque Catoptrices ".

[25] Lo spirito di protesta è stato colto e ripreso da una ingegnosa pensionata che, per recuperare i risparmi del marito morto, investiti in obbligazioni della Lehman Brothers, come fece Piero Manzoni nel 1961, ha inscatolato e messo all’asta le proprie feci sul sito del Codacons, con tanto di expertise di Vittorio Sgarbi.

[26] Il riferimento è a J-P.Sartre, Le mani sporche, testo teatrale che si può leggere come una critica radicale all’idealizzazione, verso soluzioni più prossime alla costruzione di un progetto.

[27] J.Lacan, Seminario VII, op. cit. p. 119

[28] P.Fédida, L’Absence, Gallimard, Paris, 1978, p.7

[29] J.Lacan, Seminario VII, ed.cit. p. 109

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Revista de Psicoanálisis y Cultura
Número 27 - Mayo 2012
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